“Cosa diavolo ho appena letto?”: se lo sono chiesti almeno una volta tutti i lettori di Eternity – o forse è quel che spero, per sentirmi un po’ meno ottuso. Il primo volume esercitava il fascino dell’enigma che si schiude a poco a poco; pur essendo fondamentalmente un’opera pop, è scritta in un linguaggio che si ritrae alle facili interpretazioni; occorre qualche sforzo e più di una rilettura per trovare una chiave interpretativa che si adatti alla serratura. Con questa seconda uscita Bilotta non si smentisce e, anzi, prosegue con il suo personalissimo modo di specchiare questi nostri tempi disagiati, fatto di personaggi memorabili, teatralità e tempi dilatati.
In Eternity vol. 2 ritroviamo Sant’Alceste impegnato in una lenta e oziosa deriva. Nell’aria però si avverte un tale fermento che nemmeno lui può ignorare (anche se forse vorrebbe). Il motivo di tanta eccitazione? Il ritorno di Tito Forte, lo sanno tutti. “Meglio di una finale di coppa”, più eccitante di un incontro di pesi massimi; il vecchio salotto nazional popolare riapre le porte e il suo anfitrione è di nuovo in pista: vediamo il suo faccione stirarsi come un’immagine low-definition su uno schermo di ultima generazione; nella vignetta successiva ritorna alle sue proporzioni naturali: quelle di una maschera che cede da tutte le parti, gli occhi spalancati in un’espressione di disperazione – o forse è solo il riflesso di un’oscura premonizione.
Il mondo cambia più in fretta di quanto tu sia disposto ad accettare, caro Tito, e persino un vecchio campione dei salotti televisivi paga dazio allo scorrere del tempo. Una parola di troppo, un’uscita fuori bersaglio ed è un attimo perdere le redini della situazione. Insomma, com’è e come non è, va a finire con Fabrizio Corona che spacca la faccia al cardinal Bertone in diretta nazionale. Fine dei giochi, a quanto pare, ma la discesa di Tito nel suo personalissimo inferno è appena iniziata e chi meglio di un gossipparo nichilista può fargli da guida? Forse chiunque altro, a pensarci bene, perché in fondo Alceste è più bravo a far cadere le illusioni che ad alimentarle e, a giudicare da come vanno le cose, non era proprio quello che serviva a Tito.
Attraverso una serie di tappe, cadono ad uno ad uno tutti i capisaldi della sua vita precedente: ti saluto integrità morale, amica immaginaria di una vita; addio dignità, ormai sei solo zavorra inutile. La metamorfosi giunta ormai a compimento, consegna all’eternità un uomo disposto a cedere ogni centimetro della sua dignità pur di tornare alla ribalta, poco importa se come Pippo Baudo o dentro un costume da coccodrillo. Il tutto avviene sotto gli occhi perplessi di Alceste, osservatore taciturno del disfacimento personale di Tito, nel quale riconosce quello della società intera. Il protagonista vive come l’eremita descritto da Calvino nelle Cosmicomiche, la cui forza si misura non da quanto lontano è andato a stare dalla civiltà, ma dalla poca distanza che gli basta per potersene distaccare. In questo senso, il protagonista di Eternity è l’eremita più forte.
Lo stile artistico sospeso nel tempo, sintesi di eleganza e ricercatezza, vede il passaggio del testimone da Sergio Gerasi a Matteo Mosca ai disegni – avvenuto simbolicamente in copertina -, mentre Adele Matera ai colori è una felicissima riconferma. La Roma che prende vita sulle tavole appare come un luogo di sogno eppure realissimo, con quell’aura matiabazariana che fa da cornice perfetta a una tragicommedia di illusioni pirandelliane, dove l’affanno per raggiungere il successo sembra non conoscere fine. Il motivo ce lo ricorda lo stesso autore, aggiornando la famosa citazione di Andy Warhol: “ognuno può vivere il suo quarto d’ora di celebrità”, in eterno.
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